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Versi che cercano l'anima della terra
Antonio Prete porta nella sua carne d’uomo e di poeta quell’affollamento semantico denso come mosto che rappresenta l’eredità genetica di chi accidentalmente nasce a Sud, per un fatto di meridiani e paralleli. A cui aggiunge quel grumo genetico rappresentato dall’eredità di Terra d’Otranto, isola linguistica i cui echi di culture millenarie sedimentano nell’immaginario collettivo con i loro topoi profondi nell’inconscio e nella percezione del reale. Un mondo di pietre arse che, casualmente graffiate, sprigionano le scintille di una poesia che contiene il senso fatalista del tragico e del disincanto, ma anche l’affannosa ricerca del senso oscuro delle cose. Lo scorrere inesorabile del tempo, scavare la pietra per rubare il fiuoco di Prometeo, l’aleph, il vello d’oro: l’azzardo barocco che fu già di Bodini e Carmelo Bene: dominare il proprio destino e in definitiva la “comare secca”: “…porta il pensiero fino all’orlo di una nuvola, / e ancora più oltre…”.
Con “Se la pietra fiorisce”, Donzelli, Roma 2012, pp. 120, Euro 15, Prete prosegue la conversazione iniziata, limitatamente alla poesia (ma è anche narratore che ha pubblicato con Feltrinelli, Nottetempo, ecc. e saggista e traduttore, “I fiori del male”, Feltrinelli, 2003), con “Menhir” (Donzelli 2007). Stessa password per accedere a un universo che quasi rimodula un nuovo panteismo, ma in chiave meramente illuminista. Versi di materia nuda, in cerca dell’anima del mondo e della terra, che quasi ti pare di toccare come fosse l’argilla del cosmo primordiale, ai primi vagiti del Big-Bang.
La musicalità luminosa di Keats, l’aspro pathos di Neruda, ma anche sottintesi rimandi all’epos classico. Versi stranianti, dilatati, capaci di evocare mondi perduti in cui tutti vorremmo tornare ad abitare, costruiti con parole dall’energia maieutica capaci di luce propria, e di dire più di quanto espresso. Prete crede fermamente nell’uomo, e nella parola, ma anche in un tempo in divenire dove l’uno e l’altra potranno avere un altro destino: “Il tempo, dicevi, che pulsa nelle vene / risponde al tempo che dorme negli ulivi (…) Dicevi ancora: il fiore che si apre all’alba / profuma il cuore della nebulosa”, (“Rispondenze”). “Dal cuore scuro del carrubo / muovono rami leggeri / che arabescano il cielo” (…) “In alto a cerchi un falco / traccia lento l’ordito / che è riva sull’infinito”, “Elevazione”. Dell’albatros baudelairiano “col liuto dalle corde spezzate”, in cerca dell’incanto perduto, lacerato, ma “ubriaco ancora del suo azzurro”.
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