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La poesia in Italia non ha mercato, né credibilità. Quindi non esiste.
Colpa dei “poeti” (virgolette d’obbligo), che tali si improvvisano talvolta senza aver letto niente, ignorare Emily Dickinson, la Cvateva, Holderlin, Nazim Hikmet, almeno aver saputo dell’esistenza di Alda Merini. Ma anche dell’editoria aps (a proprie spese, copyright di Umberto Eco), che pubblica di tutto, di più senza alcuna scrematura né editing.
Pare che ogni anno in Italia escano 20mila libri di poesia. E’ quello che potremmo definire il sudicio business della speranza, nel senso che a ognuno di questi 20mila “poeti” gli si raccontano “favole” (come direbbe Vanini), e cioè che i suoi versi sono buoni.
“Carmina non dant panem”, dicevano nell’Urbe, parafrasando quel detto, si potrebbe aggiungere che non solo poetare non dà pane (Pierlugi Cappello chiede giustamente il sussidio-Bacchelli: quello è un poeta, sublime il suo “Mandate a dire all’Imperatore”), ma dà sicuro sputtanamento.
La rivista “Poesia”, edita da Crocetti, vive perché scannerizza i poeti extra-moenia, fosse per quelli italici avrebbe già chiuso i battenti. E tuttavia occorre continuare a cercare. Perché quando nella cassetta della posta si affaccia l’opera di cui stiamo per dire si resta favorevolmente sorpresi.
”Muse”, di Tonino Vincent Caputo, Luca Pensa Editore, Lecce, pp. 84, Euro 12, (collana “alfaomega”, pregnante prefazione di Vito Antonio Conte) è un libricino che contiene semi che potrebbero germinare qualcosa di nuovo o quantomeno degno d’essere letto. Del poeta sappiamo ben poco (è un vezzo tacere le cose che invece darebbero notizie anche sulla loro poesia): è foggiano e vive a Maglie, nel Salento meridionale, e ha cominciato a scrivere le 1994. E’ un persona curioso: nel 2004 iniziò un viaggio d’approfondimento nelle interfacce della seconda guerra mondiale e i suoi orrori, il tutto è finito in “Diario d’inverno”. Ha già pubblicato “Chimere” (2000) e “Il sogno di una vita” (2002). La cifra stilistica che emerge ha un sottofondo naif, quasi fosse poesia di formazione. Sia nella scelta dei temi trattati che nell’incedere e lo sviluppo delle liriche.
Colpisce lo sguardo incantato del poeta sul mondo, gli uomini e le loro cose, pare quello del “fanciullino” pascoliano o dell’albatros di Baudelaire.
Questo “stupore” è risolto in un verso capace di catturare la nuda essenzialità del tutto in un contesto a volte dettato da un panteismo capace di idealizzare la natura afferrandone il suo lato materno e protettivo.
“Con la notte giunge il silenzio / tanto agognato, / come falene accanto alla luce…” (“Muse”), “Mi fanno compagnia / la voce del vento, / che accarezza le fronde… (…) Danzano gli alberi / rivolgendo le braccia / al cielo… (“Natura”). Ma è una poesia venata anche dal disincanto dettato dall’umana sofferenza comune a chi investe nei sentimenti e nelle relazioni con gli altri, per poi scoprirne il volto peggiore e rimanerne amareggiato: “Le jene rincorrono nel buio / le loro prede, / nutrendosi del giovane sangue / e delle loro membra / prima ancora che esse muoiano…” (Le jene). Magari la soluzione sarebbe rifugiarsi nel “Sogno”: “Potesse rimanere / in ogni uomo, / quell’innocenza / pura di un bambino…”. Già, potesse...
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