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Versi scarni e crudi "dietro la lanterna"
Sosteneva Charles Bukowski che la poesia è un genere difficile perché deve dire molto usando poche parole. Se eleviamo a massima l’affermazione del poeta underground di “Los Angeles – 462/06214”, possiamo dire senza remore che Matteo Maria Orlando (Gagliano del Capo, 1988, studia Giurisprudenza a Roma) ha fatto sua questa lezione. E lo dimostra già alla prima performance letteraria, “Dietro la lanterna” (derive poetiche), Edizioni Terre Sommerse, Roma 2011, pp. 64, € 15 (con bella copertina e disegni di Enzo Ferramosca, a cura di Niccolò Carosi, collana “Hypnose” diretta da Marco della Porta).
Non è facile conquistare subito un proprio format stilistico: a volte serve un’esistenza intera e non è detto che si riesca nell’impresa. Orlando invece lo fa con un impeto fresco e intrigante che lo farebbe riconoscere fra i mille poeti che oggi scrivono con una qualche ambizione, talvolta senza senso. I suoi sono versi già maturi e compiuti, fatti di parole che racchiudono una loro musica.
Ora aspri ora dolci, cupi e lievi, ilari e fulminanti i versi sono scagliati in un futuro prossimo e chiedono asilo alla posterità. Raggrumano significati osando una semantica nascosta e allegorie che danzano e offrono una propria lettura del mondo, una soggettiva visione delle cose. Orlando li compone (le poesie spesso sono prive di titolo) al crepuscolo e al disincanto per le certezze relativizzate di un mondo diventato d’improvviso una Torre di Babele. Le suggestioni di un passato che Orlando si porta dentro il dna per un fatto di derivazione geografica emergono qua e là con i loro bagliori vivi e dialettici. E su quelle pietre arse dal sole e consunte dalle piogge, edifica una nuova koinè pronta per uno mondo, e un uomo, che vogliano vivere con altri archetipi.
Il libro si compone di cinque stanze, in cui si accede pudicamente e con curiosità e ogni pagina offre una chiave di lettura e una scoperta. “Vengo dall’era postatomica, / dove i processi s’invertirono / e il tempo ridisegnò l’uomo”. (...Sul nuovo Sinai / più non v’era legge ad attenderci”), (Prima stanza). “Sorgo dal sud estremo, / dal regno delle querce avviluppate come serpi su se stesse / e dal tronco scavato dalle termiti di Crono” (Seconda stanza). “Il divino abita il cucciolo d’uomo” (Quinta stanza). Meno male, ci è rimasto qualcosa... Al lettore scoprire chi abita le altre...
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