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E’ una poetessa pudica, “nascosta” Stefania Portaccio: dosa i suoi versi con paura, circospezione. Con impietosa autoanalisi si definisce “disonesta, stupida, ingrata”. Come dire: è a disagio nella modernità, come tutti noi d’altronde. Eppure, entrare in una Pleiade fondata da Mario Luzi e sedere accanto alla Achmatova, Jimenèz, Trakl, Queneau, Darìo, de Quevedo, e ancora Pedro Salinas, Dante Maffìa, Garcìa Lorca e quant’altri, dovrebbe almeno rassicurarla in quanto ad autostima: “volentieri nutro appena posso quell’altra parte di me che è spada, spacca il pensiero come un’anguria e sputa i semi”, mentre “ridiamo trafitte dal divino”.
“La mattina dopo” (Poesie 2007-2010), Passigli Editore, Firenze 2011, pp. 112. € 14 (prefazione di Alberto Bertoni), è “una storia di amanti / dal sesso tardo e puro / di carte false per tenere duro”. Una pietra che aggiunge alla sua produzione iniziata con la vittoria al Premio Montale (inediti) nel 1986, dandole dignità e forza, proseguendo un discorso coerente nel senso di un poetare militante, esigente, rigoroso, e in tal modo collocandola fra le voci più autorevoli e potenti della poesia sospesa tra la fine del XX e l’alba del XXI secolo.
A questo punto il lettore si chiederà: qual’è la password per “entrare” nel mondo poetico, nell’officina della poetessa pugliese (nata a Lecce, vive a Roma)? Nella sua poesia della forma e del senso? (“Dare la forma e il senso, badessa mia, mi dà soddisfazione molto maggiore che narrare le avventure nude e crude”). E’ il passato, il respiro dei grandi d’ogni tempo che riecheggiano in ogni suo verso: sulle loro spalle si è appollaiata: Calvino, Pamuk, Renoir, Stephen King, Grossman. Un “tribute” che la Portaccio paga volentieri. Perché solo così riesce a vedere quello che tutti noi presi dalla volgare quotidianità e le sue miserie non osserviamo. I suoi non sensi, le rimozioni, le sublimazioni. Quello che in definitiva non vogliamo vedere perché vorremmo starcene “tutto il tempo nell’abbaglio: / un’isola di luce e di giacinti / tutta impigrita tutta intenta / ai colloqui divini” (“il mare comanda”).
Organizzata in 7 sezioni, la sua è una poesia dell’azzardo, “a bilanciare assenze”. Punta alla nudità della parola, alla sua quintessenza, nell’”antro dove risuona il fragore / della vita, lo stupefacente suo vigore”. Si spinge con coraggio, senza alibi, oltre l’oggettività, la materia, la volgarità che come peplo malefico ci avvolge: “…svegliami / ridammi l’estate”. In cerca di qualcosa di autentico e di vero: la sintonia perduta con gli altri e l’Universo che provoca in noi lo sgomento che provava Leopardi perché ”la morte è il pane aspro / che ci dai all’alba per la giornata densa…”. In cerca di una nuova koinè perchè “ci sono dentro i giorni tetri / incanti, della riscoperta di un nuovo etimo delle parole “che sono rostri / punte con veleno lanciafiamme”, che ci aiuti a superare la “pagina vuota”, la notte e vedere il nuovo giorno per riuscire finalmente a “vivere sull’orlo, perchè nell’orlo è la bellezza del noi”.
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